Me, al loro posto. Un episodio indimenticabile

di Martina Mele

Cara Sofia,

mi pare d’essere la protagonista di un incubo, avvenuto nel bel mezzo di una notte, il cui cielo, blu intenso, é illuminato da stelle, dolci e luminose, tenere e scintillanti, la cui luce, posta a contrasto con l’alto ed imponente faro, apre le acque ed illumina la via ad antichi marinai. Come vorrei essere una di quelle stelle che brillano in cielo. Mentre le chiome degli alberi, di un colore verde che si apre in profonde sfumature, come rubate dall’arcobaleno, scorrono davanti ai miei occhi e la neve, fitta, vien giù dal cielo, gli alberi sembrano danzare tra di loro, neve di un bianco candido, come fiori di tulipano, in una giornata d’estate, che sembrano rispecchiare i raggi di sole, che fanno capolino, tra le soffici nuvole. E le foglie, ancorate ai rami, che sembrano tenersi per mano. Guardavo, qualche mese fa, i volti cupi, di tutti coloro, che mi stavano attorno, che quasi vagavano su di me, che tremavo dalla paura, e che mi aggrappavo, al cappotto di un colore verdone scuro della mia mamma, dal volto preoccupato, con le lacrime che le rigavano il viso… Non sapevo ancora cosa mi aspettasse dopo quel viaggio, che immaginavo essere “Il viaggio della speranza”. Quelle ruote che scricchiolavano tra i binari, costituendo una strana melodia. Le  ruote che scorrevano, più veloci del vento, verso quello che sarebbe stato uno dei periodi più brutti della mia vita. Sin quando quei paesaggi, dolci e cupi, non si trasformarono in quello che oggi è il mio panorama,  una corda spinata, come rami dai quali però hanno origine incantevoli rose rosse. Quel filo, nero, nero come il carbone, cupo come la notte. Nero come gli occhi di quell’uomo che qualche settimana fa, fece ingresso nella mia camera, in maniera istintiva, indossando un’uniforme, quello che rimarrà inciso nel mio cuore. Lo ricordo perfettamente, era contrassegnato da un simbolo bianco su sfondo rosso, come le lacrime che con il passare dei giorni ho versato in questa stanza, nella quale, oggi, sto scrivendo questa lettera che spero, un giorno o l’altro, stringerai tra le tue mani.

Quell’ultima volta, in cui prima di scendere da quel treno, arido ed antico, ho potuto stringere la mano della mia mamma, che in questi due mesi, ho avuto l’opportunità di incontrare, solo un paio di volte. Le sue parole che affiancavano il mio cuore, lei accanto a me, assieme al mio papà, con i suoi occhioni chiari, come un mare cristallino, le cui onde, leggere, sfiorano i granelli di sabbia, di un giallo ocra, che parevano rispecchiare i teneri raggi di sole. Onde che, con la loro potenza, riescono a cancellare le impronte leggere lasciate da quelle piccole e tenere anime, che con quelle piccole ed affusolate manine costituivano i castelli di sabbia, animati da piccoli personaggi, immedesimati nelle alghe, che occupano le basse e calde acque del mare. Il mio papà, colui che mi ha sempre protetta, e che mi ha stretto la mano anche durante un uragano. Oggi, 4 dicembre del 1944, sono qui, con una stilo in mano, recuperata per caso, prima che quei soldati alti e robusti ci facessero spogliare, come fossimo veri animali, come quella gente da maltrattare semplicemente perché ebrei, colmi di  sofferenza sui volti, ma con i  cuori  pieni di speranza, a scriverti una lettera, nella speranza che tu, un giorno o l’altro, possa leggerla, e sentirmi più vicina. Quando sono arrivata qui, il cielo era cupo, grigio scuro, quasi nero, forse perché rappresentava il mio cuore, una volta aver messo piede lì, in quel terribile campo, nel terribile territorio di Auschwitz.

Difficili da comprendere, in lingua tedesca quei soldati, con gli occhi che brillavano di tenerezza, ma che per assicurarsi la sopravvivenza, emanavano ordini in lingua tedesca. Velocemente indossai quell’uniforme, quello che per la mia vigilante avrebbe contrassegnato il mio “essere ebrea”. Il cuore che mi batteva forte,  le farfalle nello stomaco. La paura, soprassaliva quel minimo di sentimento di speranza, quello di poter tornare tra le braccia della mia mamma.  Sotto le coperte, coperte che fossero  bianche, non semplici pezzi di tela ammassati, di un color marroncino chiaro, come il paesaggio che mi circondava. Oggi mentre, la mia mente è intenta nello scriverti, osservo questa serie di numeri, tatuata sul mio corpo: ero semplicemente quello, un piccolo numero. Senza più possedere il diritto di un nome. Dinanzi a me, quell’ampia riserva di scarpe, le nostre scarpe, quelle di milioni di persone, che hanno perso la vita, in delle camere a gas. Cuori infranti, cuori spezzati, di bambini che dovevano ancora assaggiare il sapore del mondo che li circondava, contraddistinti però, da quel sorriso, un sorriso posto come scudo.

All’insaputa delle guardie, il volto insofferente della mia mamma, faceva ingresso nella mia baracca, nella quale, trascorrevo giorno e notte con i miei coetanei. La mamma che porgeva a me e alla mia cuginetta un pezzo di pane che di certo, rappresentava qualcosa di speciale, di unico per me, rispetto alla minestra calda, di un colore verdastro, nel quale galleggiavano alimenti strambi, dai colori cupi, che dovevo ingerire per forza, nonostante non fossero affatto di mio gradimento.

Adesso, cara Sofia, dopo questa breve lettera devo lasciarti, vorrei ricordassi me, con il sorriso sul volto, con gli occhi che sprizzavano gioia, le fossette che mi si aprivano sulle guance. La signora vigilante è a pochi passi da qui, meglio salutarti. Ricorda, che mi manchi tanto. Sto vivendo uno dei momenti peggiori del mio cammino, ma con la speranza nel cuore, raggiungerò, il mio traguardo. O per lo meno spero.

La tua Martina

 

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